Apriamo la sezione Enocultura, dedicata al mondo della cultura del vino in Italia, con un estratto del prossimo saggio “Epistenologia” di Nicola Perullo, filosofo e professore di estetica all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il saggio parla di un nuovo approccio nei confronti del vino, più relazionale e libero da qualsiasi pregiudizio. A noi di VITE è piaciuto molto e ne riproponiamo qui in anteprima una parte dell’ultimo capitolo.
“Amo il vino perché mi regala il continuo stupore dell’innesco di relazioni possibili, una vastità di immagini che dispiego e nelle quali trovo e produco continue corrispondenze. Bevo per ricostruire o creare una fibra, per mettermi in luce le connessioni nascoste tra le cose sfibrate del mondo.
La comunicazione col vino è destinata a coloro che hanno la grazia dell’apertura. Al contrario, di solito ci si balocca, compiaciuti nell’illusione del controllo attraverso la lingua. Ma tutte le descrizioni del vino sono metafore. Anche: “questo vino vale 95 punti” e “note di tabacco, agrumi e pietra bagnata” sono metafore, perché un vino propriamente non è né un punteggio né un elenco di elementi eterocliti. È soltanto un’immagine equivoca del linguaggio – l’immagine che ci tiene prigionieri, l’idea del nome che sta per la cosa – a produrre un inconsapevole inversione tra l’allucinazione e la realtà come produzione di immagini. Se il vino è innanzitutto valore del territorio, le parole sono la mappa del territorio. Non sono il territorio.
Tra “note di ananas, gelsomino e pepe bianco”, “risveglia il senso d’orgoglio per il mio bisogno d’amore” o anche “giovane donna bionda che corre verso le onde del mare d’inverno”, l’epistenologia individua tre modi, tra i tanti possibili, di creare mondi col vino attraverso parole. Le differenze scovate non rimandano ad altro che a esperienze, a contesti, a scopi e obiettivi diversi. Lo mostro con agio più volte, durante gli assaggi con i miei studenti: la comunanza di immagini che ottengo quando propongo di dire il vino con metafore umane – come fosse un essere umano – è almeno uguale, se non più potente, a quella che ottengo utilizzando il detto delle grammatiche e delle ruote aromatiche.
Gli studenti entusiasti scoprono un mondo di immagini, intime e condivise, uno sfondo di immaginazione personale e comune, forse archetipico, comunicabile come la grammatica dei frutti di bosco e delle note legnose.
Il linguaggio non è una gabbia in cui costringo l’esperienza del bere secondo uno schema consolidato, ma il dispiegarsi continuo delle relazioni che faccio, tappeto lungo il quale camminano i piedi nel tragitto che sono e divento. Non devo adattare il gusto del vino alla grammatica e all’enologia, come sosteneva Peynaud, benemerito enologo, inconsapevole sodale dell’estetica borghese che cerca una legittimazione scientifica. È piuttosto il contrario: il gusto col vino man mano si traccia, legandosi a nuovi stimoli e nuovi percorsi. Il gusto si produce continuamente, si crea passo passo, è frutto di decisione, è processo, esattamente come l’uva nella vigna. Quando conosciamo e comunichiamo, sono convocate tutte quelle linee di transito che chiamiamo una lingua. Le metafore scelte, poi, possono certo essere grammatica o testo; posso sentire il vino come oggetto o come sostanza, farne riconoscimento canonico e solido oppure irruzione di possibilità nuove attraverso metafore inedite.
Nicola Perullo,
testo tratto da Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, Mimesis, Milano, 2016
09.02.2016
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